Trovare le parole giuste per descrivere il periodo storico che stiamo attraversando non è affatto semplice. Questo forse è dovuto al fatto che fino ad ora abbiamo sempre avuto la percezione di avere il pieno controllo di tutto: della nostra vita, della natura, del tempo… Oggigiorno possediamo strumenti così potenti che ci hanno dato l’impressione di essere invincibili e onniscienti.
Se qualche mese fa avessi cercato di immaginare quale sarebbe potuta essere la causa di una catastrofe globale, avrei sicuramente immaginato un colpo di Stato o la ribellione dei popoli del Terzo Mondo o persino una guerra nucleare.
Non avrei mai ipotizzato che nel 2020 si sarebbe ripresentata una situazione analoga a quella narrata nei “Promessi Sposi” di Manzoni, in cui veniva descritta una Milano vittima della peste, o quella di Boccaccio nel “Decameron”. Il progresso scientifico e le grandi conquiste in campo medico mi, e ci, hanno indotto a credere di essere invincibili e quasi immortali, ma solo ora ho capito quanto invece siamo fragili: siamo come foglie in balia del vento.
Un luogo e una causa certa che contestualizzino la nascita di questo mostro, chiamato Coronavirus, non sono ancora stati trovati. Sappiamo che è iniziato in Cina, precisamente nella cittadina di Wuhan, e che è sembrato a tutti qualcosa di lontanissimo da noi; per questo non avevamo minimamente preso in considerazione il fatto che in breve saremmo stati anche noi guardati con sospetto e additati come untori da tutto il resto del mondo.
È proprio così, purtroppo: quando a gennaio i telenotiziari hanno iniziato a diffondere le immagini di ciò che stava accadendo in Oriente, noi italiani, e dico “noi” per non assolvermi dalle mie colpe, eravamo ancora “vicini-vicini”: stavamo consumando il solito aperitivo nei bar stracolmi di Piazzale Arnaldo, stavamo ballando nelle discoteche, facendo la coda per prendere posto sulla seggiovia di Ponte di Legno o magari stavamo facendo shopping nei centri commerciali. Su tutti i nostri visi era stampato un sorrisetto, simile ad un ghigno, che scherniva i cinesi additandoli, secondo lo stereotipo comune, non più come consumatori di cani o insetti, bensì di pipistrelli, come se finalmente avessimo avuto una rivincita in base a qualche distorto criterio, come se per una volta non fossimo stati noi i peggiori. Gli unici a preoccuparsene sembrava fossero gli economisti, che temevano una terribile crisi finanziaria.
Questa crisi è arrivata e di sicuro non ha risparmiato l’Italia, anzi, adesso possiamo ritenerci i veri protagonisti di questa pandemia inaspettata che ha trasformato le nostre vite in qualcosa che pare un incubo da cui tutti vorremmo risvegliarci.
Ricordo bene che stavo sdraiata su un lettino della spa; ero in Trentino con la mia famiglia perché finalmente mio papà aveva deciso di staccare la spina dal lavoro per qualche giorno e dunque avevamo deciso di goderci l’ultima neve.
Ero rilassata e spensierata, niente non andava quando mia mamma ha ricevuto una telefonata dal suo titolare: tutta la famiglia per cui lavora era risultata positiva al Coronavirus. In quel momento il mostro che ci sembrava così estraneo alle nostre vite si è materializzato ed ha preso forma nella mia mente. Non riuscivo a stare ferma, forse per i troppi pensieri ed emozioni che mi sconvolgevano: provavo paura per la salute di mia madre, che era stata a contatto con individui positivi, provavo rabbia per i titolari che da giorni stavano male e avevano, incoscientemente, continuato a recarsi sul posto di lavoro per non trascurare il profitto, senza fare parola dei sintomi che da giorni accusavano, provavo senso di colpa perché mi trovavo in un hotel ed ero stata a contatto stretto con decine, se non centinaia, di persone che forse potevo avere infettato. Abbiamo cercato di attuare tutte le precauzioni possibili: ci siamo imposti la quarantena a casa, senza nemmeno essere certi della positività di mia madre, abbiamo sospeso qualsiasi uscita, non ci siamo più recati da mia nonna e abbiamo chiesto alla colf di prendersi due settimane libere. I giorni seguenti sono stati infernali per tutti noi, ma da un lato sono convinta che mi abbiano allenata a quelli futuri che tutti noi saremo obbligati a passare nelle nostre abitazioni, poiché, avendo iniziato quindici giorni prima la quarantena, adesso le pareti di casa mi stanno meno strette. Fortunatamente, più i giorni passavano, più in famiglia gli animi si rilassavano: mia mamma non ha avuto alcun sintomo e, insieme alla preoccupazione, calava il senso di colpa.
Tuttavia, se quella mia realtà mi era sembrata fino a quel momento un’ingiusta sfortuna, poiché in Italia i casi erano ancora pochissimi e sembravano contenibili, ben presto la situazione del nostro Paese si è aggravata, arrivando a contare ad oggi un totale di 5476 morti in poche settimane.
Siamo al quindicesimo giorno di una quarantena che ha obbligato tutti gli italiani, con misure sempre più limitanti, a restare in casa, ad uscire solo per ragioni di prima necessità; sono state chiuse le scuole, le università e tutte le attività che non sono direttamente legate alla produzione di beni primari. Restano aperti solo supermercati, edicole e farmacie e sono vietati gli spostamenti al di fuori del proprio comune. Sono provvedimenti che forse avremmo dovuto attuare già da tempo per limitare il contagio, che prima destavano dubbi riguardanti l’impatto sull’economia, ma che adesso non possiamo certamente più rinviare. La situazione è drammatica e persino noi ragazzi, che non ci siamo mai interessati particolarmente a quello che succedeva al di fuori della bolla circoscritta alla nostra stanza, ci stiamo domandando quando si tornerà alla normalità.
Non posso non ammettere che il quadro sia surreale, a volte vorrei potermi dare un pizzicotto e risvegliarmi dall’incubo; le emozioni sono tante e contraddittorie. In tv, sui social, sui giornali ci ripetono di essere positivi, di avere speranza, di non abbatterci e io ho cercato di farlo e di distrarmi il più possibile. Ho rivalutato le lezioni online che fungono per me come momento di evasione da tutte le preoccupazioni che mi assillerebbero e che mi fanno sentire più compresa e meno sola. Altre volte, però, nemmeno i video montati per celebrare la bellezza del nostro Paese, nemmeno quelli che mostrano le persone affacciate ai balconi che intonano l’inno d’Italia, nemmeno le innumerevoli parodie sui politici sono in grado di soffocare una terribile sensazione di ansia e angoscia. Mi sto domandando quando potrò tornare alle mie abitudini, a passeggiare per le strade della città, a stringere la mano a qualcuno, ad abbracciare un amico, quando potrò rivedere mia nonna, i miei compagni e quando potrò tornare a scuola. Tutto appare come un imponente punto di domanda e a me la luce in fondo a tunnel sembra molto lontana.
È in momenti come questi che inizio a provare un fortissimo senso di colpa. In fin dei conti dovrei ritenermi fortunata poiché tutti i miei cari stanno bene e la sola occupazione che devo limitarmi a svolgere è quella di restare sul divano del salotto a cercare metodi per sconfiggere la noia. Dovrei ringraziare di essere sana, quando sono migliaia le persone che hanno perso un padre, un nonno, che stanno male, che probabilmente non avranno un posto in ospedale e dovranno sperare che i medici scelgano di salvare la loro vita, condannando quella di un paziente con minori possibilità di farcela. Sembra di ripercorrere i racconti di mio nonno sui tempi di guerra, ma purtroppo si tratta dell’amara verità: stiamo combattendo una guerra contro un nemico invisibile che non guarda in faccia nessuno.
Gli stati d’animo e le emozioni che provo ogni giorno sono innumerevoli: confusione, nostalgia, timore, soggezione, rabbia, ma allo stesso tempo un grandissimo senso di stima, di riconoscenza e anche di orgoglio per tutte quelle persone, come medici, infermieri, volontari, a volte politici, che stanno mettendo a repentaglio le loro vite e quelle dei loro cari per dare un aiuto concreto e cercare di risollevare l’Italia. Credo sia a loro che debba andare il mio grazie più sincero.
Allo stesso tempo, seppure probabilmente si tratti di un aspetto irrilevante, data la drammaticità del periodo, ho saputo riscoprire alcuni piccoli gesti, abitudini di cui mi ero totalmente scordata, presa dalla vita frenetica di ogni giorno… Mi sono resa conto che in fin dei conti riesco a convivere con la mia famiglia, e soprattutto con mio fratello, più dei trenta minuti dedicati alla cena, e che addirittura dopo quindici giorni di imposta convivenza, i miei non hanno chiesto il divorzio e non ci sono state segnalazioni al Telefono Azzurro.
Mi sono resa conto di quanto mi manchi la scuola e poter partecipare alle lezioni in maniera fisica; ho poi realizzato di essere una persona troppo abitudinaria e organizzata: perciò, una volta tornata alla vita reale, mi imporrò di trovarmi degli svaghi alternativi, di dedicarmi per almeno un’ora alla settimana alla pura noia e passerò più tempo all’aria aperta. Da persona abituata a trascorrere molto tempo insieme ai miei coetanei e amici, a volte ho trascurato determinati rapporti poiché li ho considerati come una certezza, dandoli per scontati. Per questo motivo è stata una novità realizzare quanto siano fondamentali per me e quanto bisogno io abbia di vivere del tempo insieme.
La preoccupazione che però mi assilla continuamente è quella riguardante il nostro futuro; sarebbe bello se, come nelle favole di quando ero bambina, tutto si concludesse con il lieto fine, ma purtroppo a me la conclusione sembra ben diversa. Ciò che mi spaventa di più è che, anche lasciatici alle spalle questa catastrofe, non potremo più essere sicuri di nulla: potrebbe accadere che tra qualche tempo si ripeta qualcosa di simile.
Credo, infatti, che una delle conseguenze più significative che questo virus lascerà nelle vite di ognuno di noi sarà la consapevolezza di non potere nulla, di non valere più di una piccola particella infetta e di non essere onnipotenti o immortali.
Questo virus, infatti, non ha fatto distinzione di genere, etnia, “classe sociale” o orientamento sessuale: di fronte al Corona siamo stati tutti uguali, deboli e disarmati allo stesso modo. Credo che sia una lezione importante per tutti perché finalmente siamo consapevoli della verità, vale a dire di essere incredibilmente fragili. Quest’esperienza potrebbe rivelarsi anche utile per realizzare che non dovremmo dare nulla per scontato nella vita e per imparare a non avere attese o aspettative. Di sicuro una delle cose che mi imporrò di fare, una volta finita questa terribile epidemia, sarà cercare di vivere per chi e per ciò che mi rende felice, di essere grata per la salute, per avere l’opportunità di studiare e, nonostante tutto, per il fatto di vivere in una regione che mi assicura assistenza medica. Forse non riusciremo per qualche tempo a poter recuperare le nostre abitudini e la vita passata, ma sono sicura che da questo periodo potremo trarre delle importanti lezioni e potremo constatare un crescita e maturazione in tutti noi.
Marta Stefana, 4BL