Il lavoro? Te lo racconta (anche) un romanzo

Il lavoro? Te lo racconta (anche) un romanzo 22 Agosto 2023

Precariato, mobbing, disoccupazione, licenziamenti: sono parole del mondo del lavoro che evidenziano alcune delle sue problematiche attuali e richiamano temi quotidiani delle nostre conversazioni, dei giornali, del dibattito politico.

Se ti piace leggere, forse ti sei accorto che c’è un filone di narrativa contemporanea, diciamo degli ultimi 20 anni, in cui il lavoro è il tema centrale della narrazione.

Non è una novità, molti grandi autori dell”800 e del ‘900 hanno parlato di condizioni di lavoro e sfruttamento del lavoratore: Verga, Pirandello, Zola, London, Dickens, per fare qualche esempio. Ma è nella narrativa contemporanea degli ultimi anni che ritroviamo le situazioni della nostra quotidianità e parole come call center, co.co.pro, lavoro interinale, popolo degli stagisti.

Altra caratteristica di questo filone: è quasi sempre narrativa autobiografica. Gli scrittori contemporanei hanno da raccontarci molto su questi argomenti, perché loro stessi sono o sono stati vittime di questa precarietà.

Il lavoro descritto in questi romanzi è ripetitivo, mal remunerato e di scarsa soddisfazione, ma la narrazione è pervasa di ironia, umorismo o critica graffiante, cosicché temi potenzialmente ansiogeni diventano letture avvincenti, a tratti decisamente comiche, mai banali, che ci raccontano situazioni che potremmo vivere o di cui abbiamo esperienza.

Di seguito parliamo di alcuni fra questi romanzi. Per riflettere  e acquisire consapevolezza come persone e lavoratori.

Perché la lettura, oltre che essere divertente, offre un patrimonio di conoscenza.

 

Duchesne, Studio illegale (2009)

Aneddoti e retroscena di uno studio legale internazionale – dove Federico Baccomo inizia la professione avvocatizia occupandosi di operazioni societarie – ispirano dapprima il blog dell’autore e poi un romanzo pubblicato sotto pseudonimo. Stress psicologico, competizione tra giovani avvocati, sfruttamento. Ne è stato tratto il film omonimo.

“Il mio ufficio si trova al terzo piano, una piccola stanza che si affaccia su una strada dove le auto tendono ad allungare i pedoni con una certa regolarità.
È qui che lavoro.
È qui che ho imparato a essere un professionista seri.
È qui che ho cominciato a non sentirmi bene.”

“Svolgevo la pratica forense in un piccolo studio legale non molto diverso dalla maggior parte degli studi legali italiani. Per un pugno di euro al mese passavo le mattine in tribunale impegnato nelle attività più varie: stavo in coda ore per iscrivere a ruolo una causa, mi facevo insultare da una volgare obesa della cancelleria della sezione XIII, leccavo e appiccicavo decine di marche da bollo e poi ci pestavo sopra un timbro, cercavo fascicoli andati perduti aggrappandomi a scale pericolanti stretto nell’abitino di Valentino con cui mi ero laureato, rimuginavo. Poi , al rientro in studio, ancora fotocopie, preparazione di fascicoli, compilazione di decreti ingiuntivi e numerosi altri lavoretti per i quali, più che la laurea, mi sarebbe stato utile l’alcol. E mi andava ancora bene. I racconti degli ex compagni di università riportavano bollettini sconfortanti: chi faceva la spesa per il suo dominus, chi gli lavava l’auto, chi gli accompagnava i figli a scuola.
Suvvia, suvvia, cerchiamo di non esagerare. Intorno a me, erano tutti pronti a storcere occhi e bocca. C’è gente che lavora in miniera, avrebbe detto mia madre. e fini per dirlo davvero. Ogni volta che, scoraggiato, cercavo una sponda ai miei sfoghi, inclinava la testa, alzava un dito e si limitava a pronunciare una parola sola: Sulcis.
Un giorno, lasciando il post sul’autobus a un’anziana con un braccio rotto, cominciammo a parlare. La signora si mostrava interessata al mio lavoro e io cominciai a illustrarle la mia condizione. Poi, alla fermata di fronte al policlinico, la vecchia si avvicinò alle porte, mi guardò un’ultima volta con l’espressione di chi sta per starnutire e, prima di scendere, disse: «voi giovani siete dei smidollati.» «Semmai degli» risposi.
«Dei smidollati» urlò.
Io volevo di più.
mi misi alla ricerca dello studio in cui fare il salto e comincia a sostenere colloqui su colloqui.
La prima volta che ho messo piede alla Flacker Grunthurst and Kropper mi sono sentito sopraffatto da una penatrante sensazione di disagio: le porte a vetri che si aprivano dieci secondi prima del mio passaggio; l’impersonalità dell’arredamento; a freddezza della receptionist che mi aveva accolto dicendomi: «Si metta là» senza alzare gli occhi o rivolgermi un gesto qualunque per cui poteva anche essere il gabinetto; le piccole telecamere agli angoli delle pareti; riviste come Capital, Millionaire, Finanza e mercati disposte a ventaglio sul tavolino davanti alle poltrone; il silenzio nervoso che ronzava nei locali; quell’aura di prestigio prêt-à-porter spalmata su ogni centimetro quadrato di un posto che voleva comunicare messaggi tipo: Qui alla professionalità diamo del tu.”

 

Michela Murgia, Il mondo deve sapere. Romanzo tragicomico di una telefonista precaria. (2006)

Nato come diario sul blog per narrare l’esperienza di un mese come operatrice in un call center della multinazionale Kirby Company, diventa un libro di denuncia. Tecniche di vendita, riunioni di motivazione, pubbliche premiazioni e umiliazioni. Un dietro le quinte di questo mondo raccontato con vena tragicomica. Ha ispirato il film Tutta la vita davanti.

“Siamo davvero così manipolabili, è evidente. Perché mentre noi non pensiamo minimamente a quello che diciamo, c’è chi dall’altro lato del telefono ha già pensato a tutte le possibili obiezioni e sa come prevenirle con abili dribbling verbali.”

“Mai porre una frase in modo negativo. La parola no non deve mai comparire in nessuna delle sue varianti. Non chiedete: Non le verrebbe bene, signora, domani pomeriggio? Dite invece: Signora, le viene meglio domani pomeriggio o dopo-dopomani mattina?. Così, con due alternative che sottendono comunque un sì, il no viene decisamente più complicato.”

 

Amelie Nothomb, Stupori e tremori (1999)

Nel 1990 l’autrice ventitreenne inizia a lavorare per una multinazionale giapponese grazie alla sua conoscenza della lingua. Dovrebbe occuparsi di traduzioni, ma ben presto viene relegata dalla sua diretta superiore, spaventata dalla sua potenziale concorrenza in carriera, a svolgere mansioni sempre più umili o ripetitive, fino all’incarico di guardiana dei bagni, con le mansioni di sistemare la carta igienica e pulire i water. Mobbing e persecuzione sul lavoro raccontati con lucida ironia.

“Mi beccai una meritata lavata di capo: mi ero infatti resa colpevole di una grave iniziativa criminale. Mi ero attribuita un ruolo senza chiedere il permesso ai miei diretti superiori. Per di più, il vero postino dell’azienda, che arrivava nel pomeriggio, era sull’orlo di una crisi di nervi, essendo convinto che l’avrebbero presto licenziato.
– Rubare il lavoro a qualcuno è una pessima azione, – mi disse giustamente il signor Saito.
Ero davvero desolata di vedere interrotta così presto una carriera promettente. Inoltre si poneva di nuovo il problema della mia attività.
Mi venne un’idea che, nella mia ingenuità, mi sembro luminosa: durante le mie deambulazioni su e giù per l’azienda avevo notato che ogni ufficio, conteneva diversi calendari, quasi mai aggiornati: o il mobile quadratino rosso non era stato spostato sulla data giusta o la pagina del mese non era stata girata.
Questa volta, non dimenticai di chiedere il permesso:
– Posso aggiornare i calendari, signor Saito?
Mi rispose di sì senza darmi retta. Avevo un lavoro.
La mattina passavo per tutti gli uffici e spostavo il quadratino rosso sulla data del giorno. Avevo un incarico: ero aggiornatrice-giratrice di calendari.”

 

Vitaliano Trevisan, Works (2016)

Un corposo resoconto autobiografico delle esperienze lavorative vissute dall’autore dall’età di 15 anni a oggi. Come sfondo prevalentemente il nord est e la provincia vicentina, tra lavoro nero, precariato, sottoinquadramento, piccole e grosse sopraffazioni, mobbing, competizione tra colleghi. In mezzo, qualche esperienza soddisfacente e la concezione del lavoro come necessità per vivere prima di poter vivere di scrittura.

“Personalmente, nove-dieci ore al giorno e qualche sabato mattina quando serve, mi sembrano abbastanza. Di più, non c’è bisogno, a meno di qualche caso eccezionale. Eppure i pari ne lavorano 10-12 e il sabato mattina vengono sempre tutti! Anche il mio ex capo, sotto questo punto di vista, non faceva eccezione. L’unica possibile spiegazione, mi dico, è che sia più questione di presenza (forma) che di necessità, e il fatto di essere semplicemente presenti in azienda, anche senza far nulla di particolare, naturalmente senza essere sfacciati, cioè a dire perlomeno fingendo di fare qualcosa, abbia un valore di per sé. Mi spiace, troppe altre cose da fare, da leggere e da pensare, oltre il lavoro, per potermi permetter gli orari degli altri. e poi, mi dico, se il lavoro svolto è in linea con le aspettative, e i tempi vengono rispettati, di cosa devo preoccuparmi? Sbagliato: fare meno ore, a parità di risultati, inquieta chi, a torto o a ragione, ne fa di più. E giusto: la presenza in azienda, intesa nel senso della quantità, è considerata un valore di per sé, come mi fa capire il direttore di produzione, il quale, pur dicendosi contento di me, mette un paio di volte l’accento proprio su questa questione, anche se per ora la prende n po’ alla larga, dicendo per esempio, Se ci fossi stato sabato scorso…, oppure, Ieri sera ti cercavo, ma eri già andato via…”

 

Iain Levison, Ammazzarsi per sopravvivere. Le infinite fatiche di un precario americano (2009)

Essere trentenni, laureati in lettere e non trovare un lavoro adeguato alla propria formazione. Negli USA degli anni duemila, le vicende di un laureato in lettere (l’autore) che per sopravvivere svolge i lavori più disparati: sfilettatore di pesce, barman, runner per il cinema, conducente di autocisterne, imbianchino, cuoco, informatico, assistente di un mercante d’arte, traslocatore, pescatore e confezionatore di gamberi in Alaska. Un romanzo “on the road” graffiante e intriso di humor che racconta come sopravvivere nell’era della globalizzazione.

“È domenica mattina e sto spulciando gli annunci di lavoro. Ce ne sono di due tipi: lavori per cui non sono qualificato e lavori che non mi va di fare. Prendo in considerazione entrambi.”

“C’è un trucco infallibile per ottenere un lavoro per cui non sei qualificato. La chiave è sapere qualcosa, fosse anche un nonnulla da buttare là. Di solito questo genere di cose le si può imparare ascoltando le chiacchiere di gente noiosa. Una volta ho passato cinque ore su un treno per la Florida ad ascoltare il tizio seduto accanto a me sproloquiare sulle grane capitategli pitturando casa. Due giorni più tardi, eccomi a dipingere case a Miami dopo aver impressionato l’addetto al personale con una interpretazione magistrale del discorso che avevo udito poco tempo prima.”

 

Aldo Nove, Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese… (2006)

Una galleria  di persone vere, mai raccontate, di storie comuni che meritano spazio. Un pastore, una centralinista, un avvocato, un insegnante, un operatore di call center…. Sotto forma di intervista, a cui si affianca un’introduzione dell’autore, i protagonisti ci raccontano la loro vita di lavoratori precari.

“Roberta: quando insegnare diventa un lusso.
Alessandra: il mestiere di grafico pubblicitario dopo gli anni Ottanta.
Domenico: si può essere pastori con partita Iva?
Riccardo: i lavoratori della televisione, oggi: «manovalanza intellettuale riciclabile come plastica».
Angelo e Armando: «classe operaia» e “globalizzazione”: funziona?
Leonardo: Dotcom e «feudalesimo di ritorno»: cronaca di un disastro annunciato.
Cilia: un primo scontro frontale con le agenzie interinali.
Marco: un secondo scontro frontale con le agenzie interinali.
Maria: la figlia orfana della «grande bolla».
Storia di Fabio: un «antagonista» del XXI secolo.
Maria Giovanna: il corpo come merce, storia molto antica ma sempre attuale.
Edoardo: scuola contro Pepsi-Cola.
Luigi: Marco Biagi, chi era costui?
Carlo: «Mi chiamo Carlo, sono di Caltagirone, mi rompo il c… a lavorare diciotto ore al giorno, ma c’è gente che anche volendo non può farlo, perché lavoro non ce n’è»…”

 

Pietro De Viola, Alice senza niente (2010)

Un romanzo preceduto da un’operazione di marketing culturale in rete ad opera dell’autore: blog, book trailers su Youtube, facebook e twitter. Quando il romanzo esce on line, nel 2010, ne vengono scaricate gratuitamente 35 mila copie. Nel 2011 approda in libreria. Racconta la storia di Alice, alle prese con una vita da precaria senza vie d’uscita in cui molti precari di oggi si possono riconoscere.

“Questo mese ho compilato 193 form online su siti aziendali alla voce lavora con noi. Ho scritto 193 volte il mio cognome e nome. Per 193 volte ho indicato indirizzo, numero civico, cap, città, provincia di residenza e di domicilio (da non indicare qualora quest’ultima coincidesse con l’indirizzo di residenza. Non coincideva). Per 193 volte ho indicato il mio numero di cellulare ed ho lasciato in bianco il box relativo al numero di telefono fisso, mentre sempre 193 sono state le volte in cui ho aggiunto il mio indirizzo email e la data di nascita.
Poi, 193 volte, sono passata alla seconda fase: istruzione e formazione. Il mio diploma di maturità classica conseguito nel 1999 con un voto di 84 centesimi presso l’Istituto (ed ho messo il nome dell’Istituto) della mia città (ed ho messo il nome della città) è apparso per 193 volte, esattamente lo stesso numero di volte in cui ho inserito la mia laurea in Scienze Politiche indirizzo politico-economico vecchio ordinamento, conseguita presso la mia Università (ed ho messo il nome della città della mia Università) con il voto dirompente di 110 centodecimi. Niente lode.
Che conosco ottimamente lo spagnolo, meno bene l’inglese ed a livello scolastico il francese l’ho specificato 193 volte. Per 193 volte ho scritto di aver avuto un’esperienza di studio all’estero durata 6 mesi.
Per 193 volte ho cliccato sulla freccetta a destra e sono placidamente passata alla sezione Precedenti esperienze lavorative. In un supermercato come addetta al reparto e cassiera ho lavorato 193 volte, lo stesso numero come venditrice telefonica di linee adsl e agente immobiliare. Per 193 volte sono inoltre stata babysitter presso varie referenziate buone famiglie.”

 

Autori vari, Lavoro da morire (2009)

Undici racconti di altrettanti scrittori italiani sul tema dello sfruttamento dei lavoratori e della sicurezza sul lavoro.

Tullio Avoledo, Il pesce grande mangia il pesce piccolo
Andrea Bajani, Tanto si doveva
Matteo B. Bianchi, Pietro in diretta
Carmen Covito, Tempo parziale
Giorgio Falco, Liberazione di una superficie
Barbara Garlaschelli, Luce nella battaglia. La storia di Matilde
Dacia Maraini, Dacia Maraini presenta Nadja
Michela Murgia, Alla pari
Giuliana Olivero, Sottigliezze
Antonio Pascale, Trasformare il trauma in dolore
Grazia Verasani, Agata

“Hai fatto pure spaventare il ragazzo che era con te, te l’avevano mandato insieme perché ti alleviasse il lavoro. Mandarti a tagliare i rami da solo, a te che eri Operaio imbianchino, avevano paura, meglio se c’era qualcuno a darti una mano. Bisogna capirli dai, non si sentivano sicuri su quelle cose, sono corsi ai ripari. Sulla perizia sta scritto che l’oggetto sociale della tua azienda dice che loro si occupano (dovrei dire che voi vi occupavate?) di Attività di ristrutturazione di beni immobili,  Esecuzione di lavori edili in genere, Lavori di decorazione e tinteggiatura. Bisogna capirli, che coi rami degli alberi da tagliare,
con le piante da buttare giù nei cortili dei condomini si facevano dei problemi, a mandarti da solo. A te, che eri un Operaio imbianchino inquadrato al secondo livello. Avranno riletto il loro oggetto sociale, si saranno guardati negli occhi, si saranno stretti dentro le spalle, e si saranno detti che mandarti da solo proprio non se la sentivano, a fare una cosa che nel loro oggetto sociale nemmeno era scritta.”

“La perizia consegna i fatti, li fa succedere di nuovo mondati di tutto, impacchettati dentro parole che non hanno emozioni, con igiene da obitorio. Li mette tutti in fila sul tavolo della cucina. Io quei fatti li rivedo succedere confezionati dentro buste di nylon, e così li interpreto come fossi nell’appartamento di fianco, come se quei fatti fossero rumori, gente che parla, litigate. Faccio congetture su te. Dopo averli fatti succedere di nuovo, i fatti, la perizia si ritira perché non ha più niente da dire. Chiude la valigia come fosse una bara, ci inscatola i fatti, li consegna a chi ha chiesto di far succedere tutto di nuovo con parole sterilizzate. E così alla fine della perizia, in chiusura, sta scritta una formula di commiato. Sta scritto, in calce, Tanto si doveva. Tanto si doveva e tanto si è prodotto. Adesso si può anche chiudere la valigia dei trucchi, l’armamentario delle repliche obitoriali. Tanto si doveva e tanto si è prodotto. Il resto sono congetture. Perché poi cosa c’è da dire su uno che muore. Morire si muore sempre per sbaglio, nessuno è mai morto e aveva ragione.”

 

 

 

 

Foto: LubosHouska